La passione di Michele, l’ultimo romanzo di Giuseppe Fava

Giornalista, drammaturgo, autore di due romanzi di successo – Gente di rispetto (1975) e Prima che vi uccidano (1976) –, Giuseppe Fava (Palazzolo Acreide, 1925–Catania, 1984) in vita ha pubblicato un terzo, sorprendente romanzo: La passione di Michele (Bologna, Cappelli, 1980). Si tratta della narrazione di una poetica e desolata disperazione, nella quale, occorre subito dirlo, lo scrittore ha puntigliosamente giocato tutte le carte della sua “laica” ostinazione intellettuale e morale nell’indagare i meccanismi nel cui ingranaggio vengono stritolati i minimi personaggi della cronaca quotidiana, i più derelitti, i “vinti”: quelli a cui null’altro la storia riserva, se non una vita grama di fatica e di stenti.
La vicenda raccontata, infatti, ha come protagonista il sottoproletariato contadino meridionale, incarnato nella famiglia colonica Calafiore. Questa, dopo anni di miseria e di sacrifici, è in procinto di comprare il piccolo appezzamento di terra su cui lavora. Ma i denari non bastano e, per poter estinguere l’ipoteca richiesta a garanzia di un mutuo bancario, il ragazzo Michele, il figlio maggiore di Turi Calafiore, emigra in Germania con la speranza di trovare un lavoro e mandare a casa le somme necessarie per pagare i ratei del mutuo.
Nelle prime pagine del romanzo, il ragazzo Michele è colto nel suo ambiente naturale – una Palma di Montechiaro abbagliante di luce, tutta vicoli e cortili popolati di bambini vocianti, di bestie domestiche, di panni sciorinati al sole, di uomini muti e piantati sulle soglie di casa o davanti al bar come alberi –, nel vigore dei “suoi diciotto anni leggeri leggeri”. Poi, l’obiettivo del racconto sapientemente si sposta, con rapidi e gustosissimi flashback, su una colorita carrellata di personaggi del paese. Emerge anche, via via, il mondo della provincia meridionale con le sue ossessioni del sesso, la violenza degli omicidi mafiosi, le arcaiche strutture sociali, le contraddizioni politiche, le piaghe dello sfruttamento nel lavoro dei campi, della disoccupazione, dell’emigrazione.
Da questo mondo il ragazzo Michele si allontana verso la speranza, con negli occhi stampato lo sguardo della ragazzina “nera, vestita di nero, tutta nera i capelli”, che da qualche tempo s’incantava a fissarlo dal balconcino; con nelle orecchie l’eco delle parole del maestro Roberto: “Immagina sotto la veste che carne bianca deve avere! I peli più delicati di un canarino”; con il cuore gonfio di tristezza per il distacco dai genitori, dal nugolo di sorelle e fratelli bambini che, in un’alba imbalsamata, l’avevano accompagnato alla stazione di Catania ed aiutato a sistemarsi nello scompartimento dopo un tragicomico “assalto” al treno insieme con altre centinaia di emigranti.
Ed ecco che, dopo un viaggio terribile, Michele si ritrova a Wolfsburg. Il primo impatto con la città dell’automobile e del benessere lo riempie di stupore: la sola fabbrica è più grande dell’intera Palma; lo stesso palazzo del Gattopardo, che al ragazzo era sembrato maestoso, al confronto con le mastodontiche costruzioni tedesche, adesso gli appare come un insignificante palazzotto; a Wolfsburg c’è persino un lago con i cigni e tutto è pulito, ordinato, immerso nel verde.
Michele ha la fortuna di essere assunto quasi subito in fabbrica grazie anche ai consigli della barista Giovanna, una prosperosa donna di Licata da tempo trapiantata in Germania. Così egli può trovare alloggio, dopo l’accoglienza non entusiasta del cugino di Acireale, nelle camerette messe a disposizione dalla fabbrica; può incontrare, sia nel bar di Giovanna, sia nella cantina di Karstoff, un’infuocata babele di dialetti: quella della comunità degli immigrati italiani ed ascoltarne i problemi, le nostalgie, i rancori; può anche stringere amicizia con il napoletano Antonio, un estroso giovane dalla risata contagiosa e dall’animo carico di risentimenti contro tutti e tutto, e con il mansueto vecchio di Gibellina, lo “zio” Santo Buscema, un emigrato condotto alle soglie della follia da una tragedia familiare (aveva perduto la moglie e i tre figli nel terremoto che aveva distrutto il suo paese) e dall’ottuso formalismo della giustizia.
A Wolfsburg Michele conosce Gabrielle, una bellissima adolescente tedesca, con la quale intreccia un delicato idillio che sarà la causa della tragedia finale: il ragazzo, infatti, ucciderà a coltellate due giovinastri tedeschi che, gelosi del suo rapporto con Gabrielle, lo avevano aggredito e picchiato a sangue.
Nell’ultima parte del romanzo, lo scrittore immerge la vicenda in un’atmosfera allucinante, kafkiana: durante il processo, mentre i testimoni sfilano davanti al procuratore, Michele rimane come impietrito. La propria mente vagola tra i ricordi d’infanzia, fusi nella luce accecante della sua Palma di Montechiaro, e le immagini ossessive dei corpi nudi delle prostitute osservate in un erofnet di Berlino. Fino a quando nell’aula del tribunale non irrompe suo padre, a quattro zampe come la povera bestia da lavoro qual è e qual è destinata a rimanere per sempre.
Giuseppe Fava ha impresso a questa sua Passione di Michele una robusta tensione drammatica, che conferisce alla narrazione, specie nell’epilogo, il taglio secco del genere “giallo”. Un “giallo”, tuttavia, sui generis, punteggiato da lampi di genuina poesia, da crude scene realistiche e aperto anche a suggestive fughe nel surreale. L’avvio del romanzo è arioso, di intensa liricità: gli abitanti del paese, il sottoproletariato contadino, la famiglia Calafiore, vi si muovono, con le loro piccole, tormentate esistenze, in uno spazio senza tempo, incantato, che quello della memoria dell’infanzia del protagonista.
Anche Palma di Montechiaro, non fosse per l’accenno al palazzo del Gattopardo, potrebbe avere una fisionomia non diversa da qualsiasi altro paese povero della Sicilia di quegli anni, dissanguato dall’emigrazione, dov’è sempre possibile incontrare per strada un ragazzo Michele che, trascinando nella sua pesante valigia di cartone tutti i sogni di un’adolescenza dilacerata dalla realtà storico-sociale, è già avviato verso il suo ignoto destino di speranza e di umiliazioni.
Ecco allora innestarsi sui grandi temi del sentimento del tempo, dell’amore, della nostalgia per la terra natale, dell’infanzia, del dolore, dell’amicizia, degli affetti che durano, propri della narrativa di Fava, i motivi della commossa partecipazione di chi scrive al dramma quotidiano dei “vinti”, della denuncia decisa dei “ritardi” politici che hanno trasformato – e continueranno a trasformare – il Sud in un deserto desolato, in una terra tormentata dalla fame di lavoro e di giustizia, dall’ignoranza, dalle prepotenze, dai delitti delle cosche mafiose e dal flagello dell’emigrazione.
Rispetto al “selvaggio” e “buon ragazzo” Michele, che sogna un’onesta vita di lavoro e di sacrificio, che trema come una foglia quando, al suo paese, un boss mafioso gli commissiona un delitto, la figura di Antonio, lo studente napoletano costretto all’emigrazione dalla miseria, appare emblematica della presa di coscienza, da parte dell’uomo meridionale, della propria condizione di sottoumanità. E se la rabbia sociale di Antonio sfocerà nella rivolta individuale, anarchica, e quindi sterile, del gesto plateale, dell’urlo disperato verso un uditorio che non può comprenderlo né giustificarlo, essa invece penetrerà come un’acuminata lama nella coscienza di Michele, lo scrollerà dall’apparente suo torpore, gli fornirà quella stravolta immagine del padre “a quattro zampe”, che gli strapperà l’agghiacciante risata di chi abbia improvvisamente compreso il proprio destino.
Non poche sono, in questo romanzo tenero e al contempo crudele, le pagine memorabili (l’”assalto” al treno degli emigranti alla stazione di Catania: un vero pezzo di bravura; i dialoghi, delicatissimi, pieni di candore, tra il padre Calafiore e il figlio bambino Turuzzo; certi approfondimenti psicologici nei personaggi minori; il pudore con il quale i Calafiore manifestano i propri sentimenti; la descrizione delle personali condizioni di sradicamento e di nostalgia…).
Si aggiungano i felici esiti dello stile, realizzati mediante l’impiego di un linguaggio esemplarmente aderente alla “storia” raccontata, ricco di traduzioni di modi gergali (e, quindi, vicinissimo al linguaggio parlato), venato da un realismo critico attraversato da sortilegi della memoria, da improvvise, liriche malinconie, e sempre civilmente risentito anche quando la frase si scorci, si faccia sincopata per un rude brivido di pietà dello scrittore per la vicenda dolorosa delle sue creature d’inchiostro.