Gli “anni difficili” del “vecchio con gli stivali”

Nell’autunno del 1947, la cittadina di Modica fu letteralmente invasa dalla troupe del film Anni difficili, diretto da Luigi Zampa, prodotto dalla «Briguglio Film» di Messina e tratto dal racconto Il vecchio con gli stivali di Vitaliano Brancati, che collaborò alla stesura della sceneggiatura.
In verità, si tratta di un’opera molto importante, sia per le sue qualità espressive e contenutistiche, sia perché segnò l’inizio della collaborazione dello scrittore con il cineasta romano: infatti, insieme realizzarono anche Anni facili (1953) e L’arte di arrangiarsi (1954), e fu durante la lavorazione di quest’ultimo film che avvenne la scomparsa prematura di Brancati, il 25 settembre.
Il quale, poco tempo prima, il 27 luglio del 1947, scriveva al suo editore, Valentino Bompiani:
« […] Come va la seconda edizione del Vecchio? Non si trova più una copia,… e pare che vogliano ridurlo in film.
Il 24 luglio 1948, lo scrittore, che si trovava a Roma, scriveva così al padre:
«Carissimo papà,
«[…] Il mio film, che avrebbe dovuto aprire il festival di Locarno, non è stato terminato in tempo per essere mandato. Solo ieri l’altro ha potuto essere proiettato a un pubblico ristrettissimo (dunque il pessimismo del corrispondente di Tempo non riguarda il Vecchio con gli stivali o Anni Difficili.
Il film ha lasciato molto turbati i funzionari che dovrebbero sceglierlo e metterlo fra i quattro che andranno al Festival di Venezia, funzionari che sono quelli stessi (De Pirro in testa) del Ministero della Cultura popolare; essi non sono riusciti a sorridere davanti alla caricatura di se stessi – cosa del resto molto naturale. Ma so che il film è molto piaciuto ad Andreotti.
[…] Il Corriere della sera mi vorrebbe fra i suoi collaboratori, alle stesse condizioni di Tempo. Io sono stanco di apparire in questo giornale insieme al rigurgito letterario e politico della repubblica di Salò, e forse accetterò la proposta. […]
Tuo Nuzzo»
Ecco, invece, cosa scriveva alla moglie Anna Proclemer, due giorni dopo:
[…] Una vera battaglia sta infuriando al Ministero attorno al film.
[…] Fortunatamente è intervenuto Andreotti, il Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, che ha voluto vedere il film. Si è molto divertito, lo ha giudicato importantissimo e degno del festival di Venezia; con le sue sonore risate, ha costretto De Pirro a ridere un poco anche lui. Però dobbiamo fare alcune modifiche […]».
Anni difficili viene presentato alla IX Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia (dal 19 agosto al 4 settembre 1948) e – come scrive lo stesso Brancati all’editore Bompiani – «suscita moltissimo interesse e furibonde discussioni».
Il 18 ottobre il film viene proiettato in un cinema romano.
Il 25 dello stesso mese, nel corso della XCVIII seduta del Senato della Repubblica, il Segretario sen. Raja legge la seguente interrogazione:
Al Presidente del Consiglio dei Ministri, per conoscere se non ritenga necessario, con opportuni interventi, impedire il ripetersi del poco edificante spettacolo a cui si assiste continuamente in tutti i centri d’Italia, con la proiezione di films nei quali produttori e registi di poco scrupolo, speculando sulle miserie della Patria, ne mettono ostentatamente in luce gli aspetti più deprimenti e le brutture più dolorose. Tali proiezioni non soltanto denotano mancanza di buon gusto e scarsa sensibilità artistica, ma offendono altresì il senso morale e più ancora la dignità di un popolo che così duramente lotta per risollevarsi dalle sue sventure.
MAGLIANO, CINGOLANI, PERSICO
Il giorno dopo, «Momento sera» attaccò violentemente il film; invece su «L’Italia Socialista» apparve questo trafiletto:
«Se esistesse un album per l’affissione di tutte le concessioni alla retorica, al conformismo, al cattivo gusto, esso avrebbe accolto di diritto l’interrogazione dei senatori Cingolani e Persico contro un film che a loro avviso attenta nientemeno alla “dignità di un popolo”.
Il film in questione è Anni difficili, tratto da un noto racconto di Vit. Br. ecc. e narra le peripezie del fascismo visto dall’angolo della borghesia di provincia ecc. È questo tono che ci è piaciuto per l’appunto, nel film. È quello che ha indignato invece gli onorevoli interpellanti. I quali hanno parlato di Patria offesa, d’insopportabile insulto e così via, dimenticando così che, proprio con la loro insofferenza, con la loro pruderie, con il loro patriottismo a fior di pelle tutto riservato alle “cose che non si possono dire perché ci screditerebbero all’estero” pongono ufficialmente la loro candidatura per i personaggi del nuovo Anni difficili che un altro regista degli stessi sentimenti vorrà girare».
Lo stesso giorno, Brancati scrive alla moglie:
« […] Invece dell’intervista, ho dato al redattore di Momento-Sera una lettera che apparirà domani. Questo giornale pubblica oggi che è stata presentata un’interpellanza alla Camera dello stesso tenore di quella presentata al Senato.
Ho saputo che Cingolani, uno dei senatori interpellanti, è presidente della Società cinematografica Universalia: sotto l’indignazione sacra si nasconde dunque l’insegna della bottega […]».
Ecco la lettera di Brancati rivolta al giornale:
«Egregio Direttore,
ho letto i violenti attacchi di Momento-Sera al film Anni difficili tratto dal mio racconto Il vecchio con gli stivali, e Le confesso che mi hanno sorpreso perché vengono da un giornale diretto da Lei che va riferendo con molta onestà su un chiassoso processo che si celebra in questi giorni.
Non sono affatto convinto che il film Anni difficili intacchi l’onore nazionale e vorrei invitarLa a citarmi una battuta, una scena in cui l’Italia sia veramente offesa. In verità, il nostro amore per l’Italia, anche se si esprime, o meglio, appunto perché si esprime con censure e amari sorrisi, è più serio che non i trasporti di coloro che si professano a voce alta custodi dell’onore nazionale. Questa professione, a parte che dal ’22 al ’45 è stata ben remunerata, riesce dannosa al nostro Paese più dei terremoti e le carestie. Non erano infatti custodi dell’onore nazionale, coloro che spinsero l’Italia in una guerra che, vinta, l’avrebbe resa serva della Germania e, perduta, l’avrebbe mutilata e impoverita?
Io sono rimasto molto addolorato quando ho appreso che tre senatori, ricchi di tutta l’autorità che conferisce loro il fatto che la dittatura è finita e il Paese è ormai libero di scegliere i suoi rappresentanti, abbiano presentato un ‘interpellanza contro un film dedicato alla satira e al disprezzo della dittatura. Perché infatti quella che si colpisce e offende continuamente in Anni difficili non è l’Italia, ma la tirannide con tutti i mali che l’accompagnano: l’ipocrisia, l’avvilimento, l’entusiasmo comandato, il sacrificio senza felicità per una patria diventata madrigna, lo spionaggio, la tronfiezza.
Mi dispiace che anche Lei chiami dignità nazionale la tetraggine della tirannide. In questo modo, anche Lei contribuisce a rendere più pesante l’aria che si respira in Italia: un’aria in cui coloro, che scesero nelle strade solo quando le S.S. ne sorvegliavano gl’imbocchi e contro l’odiato invasore anglosassone non azzardarono nemmeno una delle migliaia di azioni che osavano ogni giorno contro i tedeschi quei partigiani ora tanto derisi e processati, diventano eroi nazionali; un’aria in cui coloro che preferirono l’esilio all’orbace, vengono chiamati traditori della patria, non tenendo conto che la Patria era là dove pochi uomini parlavano liberamente e non qua ove tutte le parole e gli atti erano infirmati dalla costrizione, da quella pistola da brigante che ciascun cittadino si sentiva appoggiare ogni volta che doveva esprimere la sua opinione.
Il sugo del film è nella tirata finale del protagonista, quando egli grida che contro la dittatura non bisogna contentarsi di mormorare a bassa voce ma rischiare il carcere e perfino la morte, se non si vuole che, in vece nostra, muoiano i nostri figli in una delle tante guerre disastrose che la dittatura suole provocare.
Sono sicuro che anche Lei è d’accordo con questo personaggio.
Cordialmente
Vitaliano Brancati»
Il giornale pubblicò la lettera il 29 ottobre, con il titolo «PER I CATONI LIBERA SCELTA», facendo seguire il seguente commento:
ABBRACCI DIFFICILI
Voi sapete che cosa è il film Anni difficili, quella specie di macchina che il regista Luigi Zampa ha messo su per tirarsi i calci in faccia, e dinanzi a cui certa gente ha riso a crepapelle nel vedersi ritratta com’era non troppi anni fa sotto certi balconi. Voi sapete la gravità dei rilievi mossi a quel film che non fa certo onore al nostro Paese e di cui potranno ridere legittimamente soltanto gli stranieri.
Voi sapete che sulla questione è stata presentata un’interrogazione al Senato e un’altra verrà presentata alla Camera. Dopo tutto questo chiasso il regista s’è svegliato dagli ozii di Ischia e ci ha scritto una lettera. Non – badate bene – per difendere il suo lavoro, il che sarebbe stato naturale. Non per spiegare le ragioni che lo hanno spinto a fare quel film, il che sarebbe stato legittimo. Non per rivendicare all’arte la libertà più assoluta, il che poteva essere, da un punto di vista estetico, sacrosanto. No, il regista s’è svegliato per smentire di avere abbracciato, alla «prima» del suo film, le due interpreti femminili perché lui non era presente.
«La prego di pubblicare questa mia – conclude il regista – affinché i suoi lettori possano trarne le dovute conseguenze».
Ecco fatto, signor Zampa. Ma ci consenta di dire che l’unica buona cosa che ella poteva fare era proprio quella di abbracciare le due attrici, senza però fare il film.
Vitaliano Brancati, romanziere di talento che aveva incominciato con L’amico del vincitore e Piave, in un clima ortodossamente littorio, ebbe – a un certo momento – una crisi spirituale piuttosto complessa: in una serie di Lettere al Direttore di un allora diffuso periodico il B. mise a punto e chiarì – a se stesso prima che agli altri -l’origine e i motivi di tale crisi.
Non vorremmo che oggi, con questa Lettera al Direttore del nostro giornale, Brancati desse inizio a un nuovo chiarimento della sua tormentata psicologia, vale a dire a una nuova crisi (né la cosa, del resto, potrebbe meravigliarci). Abbiamo detto che films come Anni difficili (e racconti come Il vecchio con gli stivali) rendono un cattivo servizio al senso di dignità degli italiani. Si traducono – invece che in satira – in autolesionismo: e l’autolesionismo, lungi da essere arte, appartiene di diritto alla patologia.
Abbiamo detto che tutto il film, non una singola scena, suona offesa all’intelligenza e all’onestà italiana: se non bastasse aggiungiamo che, ai tempi di vera democrazia, abbiamo il diritto di scelta anche dei nostri eventuali Catoni. Il che significa, se avessimo voglia di autoflagellarci, che non sceglieremmo certo – a espiazione delle nostre colpe – né la penna di Brancati, né l’obiettivo di Luigi Zampa.
Il 27 novembre, nel corso della CXVII seduta del Senato, l’on. Giulio Andreotti rispose così all’interrogazione:
ANDREOTTI, Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio.
Questa interrogazione fu presentata all’indomani di una pubblicazione comparsa su un giornale romano del pomeriggio, il «Momento Sera», che, prendendo lo spunto dal film «Anni difficili», chiedeva l’intervento dei poteri pubblici per disciplinare e rivedere da capo tutto l’orientamento della cinematografia nazionale. È vero che successivamente il senatore Persico, che era stato uno dei firmatari dell’interrogazione, chiariva, in una breve intervista ad un giornale, che il film in oggetto era stato soltanto una occasione di importanza non sostanziale. Ma perché sono sorte proprio su questo film grossissime polemiche, non soltanto nel campo della critica cinematografica, ma anche con interventi di autorevoli personalità politiche, di numerosa stampa anche non tecnica, non qualificata, credo che sia necessario dire che è assolutamente fuori luogo l’affermazione che questo film offenda la dignità nazionale o qualche cosa di simile. Il film è una esposizione (che qui non ci interessa di valutare da un punto di vista tecnico-artistico) di situazioni comuni e di stati d’animo, fatta con un senso notevole di misura e con una mano molto leggera. È la storia di un povero diavolo che fa le spese di tutti i rivolgimenti politici: purtroppo questa è una realtà che tanti italiani hanno conosciuto e forse raramente capita, come di fronte a questo film, che ognuno, fascista, antifascista o afacista che sia, senta qualcosa che è stata una propria esistenza personale.
Qui sorge il quesito: che cosa diranno all’estero?
Io vorrei che ci si fermasse un secondo a pensare che ogni film non ha la pretesa di fare la storia di un periodo o di essere un documentario; il film, anche quando parte da alcuni fatti realmente avvenuti, e li inserisce in un determinato ambiente e momento storico, ha però tutti gli elementi della fantasia, della genialità di invenzione, del contorno di colore, che è una cosa profondamente diversa da quello che è il puro documentario, che invece vuole essere una rappresentazione di avvenimenti più o meno solenni, ma comunque di risonanza pubblica ed inseriti nella storia e nella cronaca di una collettività.
Quindi, non dobbiamo (come nessuno si sognerebbe di dire che all’estero possano dare un giudizio sulla situazione italiana o sull’orientamento psicologico del nostro Paese partendo da un romanzo o partendo da una composizione letteraria) non dobbiamo, di fronte ad un film, sopravvalutarne l’importanza sotto un simile punto di vista. Va poi soggiunto che c’è un pericolo: che qualche volta cioè si porti maggiore attenzione ai modi di impedire che si parli di noi in un determinato senso, piuttosto che ai modi di procurare che le cause per cui certi fatti avvengono o sono avvenuti non abbiano ad essere più attuali o comunque passibili di conseguenze operative. Questa è una mentalità che spesso noi abbiamo. Noi dobbiamo invertire l’ordine di importanza, dobbiamo prima preoccuparci di sanare delle situazioni, di impedire che certi presupposti possano mettere in campo conseguenze cattive e poi preoccuparci di quel che diranno all’estero. Dobbiamo essere dei tutori molto severi della dignità nazionale; ma lo saremo con tanta maggiore convinzione se questa dignità nazionale non sarà passibile di discussione nella sua effettiva realtà, qui nel nostro Paese. lo so bene che ci sono stati nell’immediato dopoguerra alcuni film i quali, non avendo neppure un livello artistico che giustificasse, se mai, in qualche modo certe loro arditezze di contenuto, non hanno fatto del bene, non direi tanto all’Italia, ma alla cinematografia italiana. C’è stato un indugiare su alcuni motivi – per esempio il motivo di Tombolo – che certamente non rappresentano le cose degne dalle quali poter prendere argomento per farne un possibile specchio degli elementi artistici di un’eventuale nostra propaganda all’estero. Ma non si può ignorare o trascurare un fatto ormai universalmente acquisito: il sorgere cioè di una scuola, che si chiama del «neoverismo cinematografico», che, pur con le difficoltà iniziali, pur con tutte le qualità accessorie che non integralmente possono essere accolte e che forse neppure sono definitive, ha portato il nostro Paese in questo campo ad affermarsi con una formula e con una caratteristica che sono veramente oggi, nel campo della cinematografia internazionale, valutate anche dagli ambienti che da un punto di vista tecnico ed artistico sono di più difficile gusto. C’è oggi questa conquistata formula generale e non dobbiamo noi – non sarebbe neppure qui il posto adatto, né ne avremmo il tempo – fermarci a guardare tutti i particolari concreti di come questa forma si incarna nei film o nei film trova il superamento di certe formule tradizionali, in una vicinanza a quello che veramente è e alle cose come veramente si presentano, con un contenuto di bontà naturale che non possono non avere. Ho detto prima che ci sono stati degli eccessi, ci sono stati dei film che veramente non hanno fatto del bene, prima ancora che all’estero, entro il territorio nazionale. Ma questo, purtroppo, credo che vada inserito in quel bilancio dell’immediato dopo-guerra che non soltanto – magari fosse stato così! – nel settore della cinematografia o nel settore dello spettacolo ha avuto dei fenomeni transitori con parecchie punte dolorose. Direi che spesso è stata questione proprio di saper rendere un qualche cosa che, su questi elementi base, avesse una determinata vitalità artistica, perché allora veniva quasi ad assumere, necessariamente, anche un contenuto spirituale. Potremmo fare degli esempi: sugli stessi argomenti, sugli stessi soggetti, possono farsi dei film profondamente diversi: fra Tombolo e Senza pietà, per portare un caso concreto, c’è, mi pare, un abisso, pur avendo i due films come sfondo, lo stesso argomento.
Debbo aggiungere che questa produzione italiana nella manifestazione internazionale di Venezia, che ha avuto una grandissima portata mondiale, ha veramente ben figurato: noi abbiamo avuto, per la prima volta, delle autorevoli critiche assai favorevoli, anche in ambienti che, sino a quel momento, erano stati ostili alla nostra cinematografia. Nella interrogazione si dice, forse con parole degnissime nella loro aspirazione, ma eccessivamente severe nella loro formulazione: perché lo Stato non interviene maggiormente?
Ora, dobbiamo stare attenti, perché un intervento dello Stato, a parte il fatto che forse si inserirebbe male nel quadro costituzionale che attualmente regge la nostra Nazione, potrebbe fors’anche mortificare in qualche modo le iniziative artistiche e produttive dei privati, senza con questo conseguire un beneficio di ordine morale, direi di ordine civile, nel senso che è inteso nella interrogazione.
lo sono d’accordo nella necessità di essere molto severi quando si tratti di difendere i principi di moralità, che sono fra l’altro un patrimonio comune del nostro Paese, anche se si vengono – talvolta – a verificare delle conseguenze spiacevoli, in campo economico, per quelle determinate imprese che si sono lanciate in certe male impostate iniziative. Noi, quando si tratta di difendere, nella sua doverosa tutela, la moralità nel senso vero e nobile di questo concetto, naturalmente non possiamo transigere. E direi che in questo campo c’è una concordia proprio delle stesse categorie interessate. Ma vorrei aggiungere che non basta un’eventuale azione di censura: direi che la censura è un po’ come la pena, è un rimedio estremo, che però non sana le cause che hanno determinato il fatto che si viene a colpire. Noi dobbiamo incoraggiare una produzione sana, moralissi1na e nello stesso tempo attraente, che può degnamente inserirsi nella corrente, che prima ho ricordato, della nuova scuola italiana, che fa onore alla nostra cinematografia e che all’estero ci viene invidiata, sicché a noi spetta valorizzarla, tendendo a che questa formula rappresenti un qualcosa che abbia anche e può averlo – un significato spirituale.
Dato che stamane si è qui accennato a questa materia, debbo dire che c’è una preoccupazione di ordine generale nel campo della cinematografia, perché noi, rispetto al numero dei film prodotti, sia negli anni ante-guerra, sia nel dopo guerra, oggi ci troviamo molto al di sotto.
Il Senato avrà occasione di discutere più ampiamente questo argomento tra pochi giorni, poiché sarà presentato un provvedimento di legge che in qualche modo, senza oneri per le pubbliche finanze, viene incontro a questa esigenza di rinascita della nostra cinematografia.
In tutto l’anno in corso noi abbiamo prodotto solo quarantasei film italiani, cifra che è veramente troppo bassa perché si possa resistere alla pressione internazionale. Di fronte a questa cifra non incoraggiante, c’è però una constatazione da fare: ed è quella che il film italiano è oggi fortemente richiesto all’estero; indipendentemente dagli ordinamenti politici e dalle tendenze particolari dei diversi Stati, c’è una ri chiesta come non c’è mai stata. E chi avesse voglia di guardare, mese per mese, quali e quanti film italiani vengono oggi programmati nelle sale delle diverse parti del mondo, avrebbe davanti una statistica veramente confortevole. Questa richiesta deve spingerci a fare in modo che questa crisi, legata particolarmente alla deficienza del credito cinematografico, possa essere il più rapidamente possibile superata.
Credo che gli onorevoli interroganti e anche gli altri onore voli senatori possano essere d’accordo su questo principio base: di fare in modo che la nostra cinematografia si affermi, si sviluppi senza che davvero con questo si comprometta della nostra Nazione.
Mi permetterò a questo proposito di citare un significativo esempio americano: chi ha visto il film Lo Stato dell’Unione, programmato in America proprio alla vigilia delle elezioni (una critica profonda a tutto quello che era il sistema dell’organizzazione dei partiti e all’organizzazione elettorale in U.S.A.) può avere avuto una prova di quello che deve essere un largo tratto, una larghissima sfera di libertà lasciata alla fantasia, lasciata alla genialità produttiva della cinematografia. In questo campo certamente gli interessi italiani sono stati – salvo la parentesi dell’immediato dopo guerra con qualche stonatura che prima ho ricordato – tutelati, e credo che lo saranno, se continuiamo sulla strada che è stata intrapresa anche per l’avvenire.
PRESIDENTE.
Ha facoltà di parlare l’onorevole interrogante per dichiarare se è soddisfatto.
BATTISTA.
Onorevoli senatori, ringrazio innanzi tutto l’onorevole Sottosegretario di Stato, di quanto ha voluto dirci sul problema della cinematografia.
Per quanto riguarda il programma dell’ulteriore sviluppo della cinematografia e per quanto riguarda il disegno di legge che eventualmente verrà presentato qui per incrementare la cinematografia, mi dichiaro soddisfatto. La cinematografia non solo rappresenta un’industria che può dar lavoro a moltissimi operai, ma rappresenta una propaganda, un’attività artistica che può fornire della valuta al Tesoro italiano e può diffondere all’estero la conoscenza della nostra vita e della nostra arte.
Ma quando l’onorevole Sottosegretario ha inteso difendere alcuni film ai quali ci si riferiva nell’interrogazione, mi permetta l’onorevole Andreotti, pur apprezzando quanto egli ha detto e le giustificazioni che ha voluto fornire, di non essere completamente d’accordo.
Mi trovavo, alcuni giorni fa, a Parigi, e in molti cinema si proiettava il film Come persi la guerra, interpretato da Macario. Questo film riscuoteva il successo del pubblico parigino e alcuni conoscenti francesi mi dissero: «L’Italia ha fatto un grande progresso nella cinematografia». Ma ci ridevano e il nome di macaronì si sentiva ripetere nelle sale cinematografiche nelle quali si proiettava il film. (Commenti).
E non si tratta soltanto di Anni difficili o di qualche altro film che effettivamente si può imputare alla responsabilità del produttore o degli artisti; si ha l’impressione – attraverso una serie di film che si vengono proiettando nei cinematografi italiani e stranieri – che si vogliano mettere in piazza tutte le nostre miserie e molte volte neanche le nostre miserie.
MUSOLINO.
Bisogna guardarsi allo specchio!
BATTISTA. Non difenda quello che non è difendibile. Lei sa che nel film Come persi la guerra il soldato italiano, che tante prove ha dato …
ANDREOTTI, Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio.
Ma quella è una commedia!
BATTISTA.
Sì, ma quel sarcasmo non è simpatico e non dà prestigio al soldato italiano che tante prove di eroismo ha dato in tutte le guerre. È una commedia, ma anche nelle commedie ci vuole un certo limite e un certo gusto e non si debbono ferire i sentimenti più nobili e più intimi del nostro patriottismo. (Applausi).
Ora è un po’ un sistema della nostra cinematografia ed è perciò che con questa interrogazione abbiamo voluto sollevare questo argomento; e preghiamo l’onorevole Sottosegretario di Stato, che così bene si occupa del problema cinematografico e molto giustamente ci ha esposto quali sono i pro grammi futuri (e con molto compiacimento abbiamo preso atto che i prodotti dell’industria cinematografica italiana sono apprezzati non solo a Venezia, ma anzi vengono programmati in tutte le parti del mondo) di voler svolgere anche un’opera, direi così, persuasiva (non ci vogliono delle sanzioni, che non servirebbero a nulla: siamo d’accordo con l’onorevole Sottosegretario in questo) affinché i nostri produttori cinematografici tengano conto anche di quello che è il nostro decoro nazionale. (Applausi e congratulazioni).
Anni difficili incontrò molte difficoltà con la censura e lo scrittore temette che venisse vietato. Si meravigliò quando passò, ma venne a sapere che, in tutta fretta, avevano inserito un nuovo nome tra gli sceneggiatori, come disse lo stesso Brancati, nel corso di una conferenza tenuta a Firenze il 24 giugno 1952:
« […] Seguendo una tradizione del nostro Paese era stato messo in tutta fretta tra i nomi degli sceneggiatori del film quello di un ragazzo che aveva assistito due o tre volte, con gli occhi imbambolati e in silenzio, alle nostre ultime sedute del lavoro. Questo ragazzo faceva parte del gabinetto del sottosegretario ed era suo amico».
L’episodio si trova citato nel pamphlet Ritorno alla censura (La Terza, Bari 1952).
Come si legge nei titoli di testa del film, il ragazzo si chiamava Franco Evangelisti!
Ci pare dunque di poter affermare, in conclusione, che le interessanti vicende relative ad Anni difficili, con le diatribe, le miopi censure, le furbizie, gli articoli, gli interventi politici, che ne hanno accompagnato l’uscita, rappresentino, emblematicamente, i “vizi” e i piccoli-grandi compromessi di un’Italia incapace di affrancarsi completamente dal suo recente, triste passato e di avviarsi speditamente per una strada davvero nuova e diversa.