LO SCORSONE

Le radici della grandezza del mondo affondano in un’infanzia. Il mondo comincia per l’uomo
Le radici della grandezza del mondo
affondano in un’infanzia. Il mondo
comincia per l’uomo con una rivoluzione
d’anima che molto spesso risale all’infanzia.
GASTONE BACHELARD
Sulla terrazza dei Corvaja, i più ricchi di Catalcàra, quella sera c’era il festino d’estate. Gli invitati, dame e cavalieri tutti allicchettàti, erano arrivati alla spicciolata, con automobili e sciaffùri. Un’orchestrina suonava ballabili – valzèri, tanghi, mazurke… – e la musica scinnèva nella sottostante via Carolina: aliggiàva sui pisòli apparecchiati per la cena, palpitanti di lumère, di piccirìddi, d’ùmmiri e di sussurri come nidi di rondini.
Sandromabìlia, dal cantone della strada del Teatro, davanti al portone chiuso del vecchio cinema Rex, seguitava a friscàre il richiamo concordato che pareva un mèrulo. Appena potetti raggiungerlo, si allagnò che i compagni, stufi d’aspettare, oramai se n’erano andati a Cataldolce, alla festa di San Pietro. Se volevamo agghicàre pure noialtri in tempo per vedere i fòchiri, sbraitò incazzàto, dovevamo passare per Cicchìna: dallo stradone di corso Italia, pure a correre, tardi lo stesso avremmo fatto.
Cicchìna era un’antica trazzèra scontorta di sassi e sterpàzzi che portava insìno alla pràja di Cataldolce: al mare. Partiva da contrada Primosole, all’incrocio fra la strada del Teatro con via Tommaseo, dal canneto allàto alla masseria di Don Vennerànno il Macchiòto. Ma, già dopo il primo tratto, non più di un centinàro di metri a occhio e cruci, addiventàva in tutto e per tutto impraticabile: una fitta vegetazione spontanea di rovetti, piràini, zammàre e ardìche, che cresceva e si diramava da sopra e d’attàglio ad entrambe le basse murate di pietra su pietra, la intricava e la scancellava in viòlo presunto. Più oltre, a metà all’incirca, vi si slargava uno spiazzo tra rocce pizzùte di nìvora sciara: la Cava dell’Orbo, luogo, nei tempi passati, di disfide al coltello e di duellamenti, dove più di un picciotto, tosto di testa ma spràtico a schivare o a parare inquartàte di lama, ci aveva lassàto la scorza dell’anima. Dicevano che proprio in quel punto, nottetempo, circolassero gli spirdi dei morti ammazzati.
A Sandromabìlia arrisponnìi che ci andasse lui da solo per Cicchìna: io manco morto si sarei passato. Ma egli, un balenìo d’occhi lucentàti dal lustro della luna, m’arridì in faccia, a gabbo: «Che è, putacàso tantìcchia scantòso il carùso è?» mi sfotté.
Dal fitto dell’ombra compàrse, storto e spirdàto, quel vastàso, quel malaconnùtta di Malandrino (e chi lo sapeva ch’era lì, ammocciàto?). Forse da un pezzo già vi stava, assittàto a cavallo del muretto, e ci spiava. S’apprresentò all’improviso, senza fare scroscio di passi, come un fantasima.
«Venitèmi dappresso, picciotti» comandò con un velo di bòria che gli rendeva risoluta la voce babba: «faccio strada io. Malandrino di niente s’attimòra!» si vantò. Taliandòci incòrto, mostrava in pizzo alle labbra una risatèlla maligna. Poi, pigliò a camminarci davanti, lasche le vrazza, con la sua camminatùra snoccoliàta.
Non ci azzardammo a pipitàre. Lo seguimmo, mùtoli, insìno all’imbocco di Cicchìna. Qui Sandromabìlia si fermò brusco come a uno scecco, quasi s’impuntò, e la faccia infoscàta, con un filìtto di voce (pure uno scàscio fece): «E se c’è… e se c’è lo scorsòne?» m’aggelò.
Mìnchia! Solo a sentirla, quella parola, aggroppàre m’intèsi le budella e un tremolizio m’acchiappò ambedue le ginocchia: sapevo – era cògnito e ne avevamo parlato tante volte tra noialtri nella vanèlla del Ferraro – che lo scorsòne non dava scampo, che più veloce d’un baiuzzo arabico correva e che, già a distanza, aspirava e sucàva tutto il fiato della vittima; e, intanto che correva, la faceva stramazzare morta stecchita. Malandrino, invece, arridèva, smaccòso, l’occhio vìvolo di faina, la zazzera nivòra che gli tremoliàva sopra la fronte.
La serata era magnifica. Le lucciole sbrilluzzàvano a intermittenza tra le ombre dei rovetti che s’aggrumavano fitte in basse, sparpagliate dune, e il pozzo del cielo, attizzato di milioni di tremule spìngole d’oro, si pittàva, dal lato della marina, di tenero verde. Un rèfolo di vento tramontano – appena una vava – abbrividìva il canneto, ne nacàva le cimase. Pure la luna arriposàva: appòjata come una lampara sopra il fiore più alto d’una troffa di spadoni di zammàra, jettàva attòrno a sé lucori di ciprie e spolveri smiraldìni.
Malandrino proclamò all’impensàta: «Non è scantòso come a certi cacasòtto, Malandrino! Malandrino se ne fotte dello scorsòne!» e banniò al silenzio l’ultima parola come prova di coraggio e disfida. Lesto, dopo, s’inziccò nel viòlo di rovetti e ardìche con la sua figura sicca e sbrilènca, il passo annacoliòso, e sparì risucàto dintr’all’infòto dell’ombra.
Pure noialtri ci trasèmmo, nel viòlo, scansiàndo con una canna intorcinii di gramigne, d’ardìche, groppi di ramàzzi spinosi, allascandoli prima d’azzardare càuti passi, battendo i piedi e scrafazzàndoli. Avanzavamo all’orbìgna, uno appresso all’altro, a lèggio a lèggio, con il cuore che ci ballariava, attenti al minimo scròscio o fruscìo. Stavamo vivendo la grande avventura, il rìsico periglioso ed estremo: il profanamento del reame, del ricètto sigrèto del mostro che, a mocciòne, arrùba e astùta il respiro. Oramai, il nostro, malo joco con la morte era: lo sapevamo. E sapevamo pure che la faccènna poteva finire a schifìo.
Il viòlo per acchianàre sopra la Cava e attraversarla, all’interno, faceva arrizzàre le carni. Tutt’attorno si levavano dune peciòse di sterpazzi e, ancora più addèntro, si scorgeva lo scontorto nerume delle sciare con le troffe dei ficodindia, le cui pale a cupola, brancicàte sopra la pietraia, smerlettàvano di cupi rabeschi lo schermo smiràldo del cielo. Larga luccicànza di stelle c’era e una pace misteriosa, rotta solamente dai grilli; un sciavòro mavaròso di zàhare (di là delle sipalàte, in verso la chiàna di Màsqalah, ciurèvano arancèti e lumièti e jardìni di bergamotti a perditìna d’occhio) agghicàva a unnàte scialacòre. Davanti, nel frusciare delle ardìche e dei rovètti smossi dalle canne, sentivo il respiro ansimòso di Sandromabìlia che pareva un sibilo. “È lo scorsone che arriva!” mi parliàvo dentro, mi allammicàvo, fantasiavo scantatìzzo, e cercavo di trattenere a più non posso il respiro per non farmelo arrubàre. Ma, per quanto concentrassi tutti i pensieri allo scopo, uno, malanòva!, seguitava a scapparmi, mi rosicava, mi maceriàva il cirivèllo a scandire scor-sò-ne! scor-sò-ne!, come a clamàre il mostro. Il mìgnolo della mano mancina avrei dato, per riagguantarlo e farlo azzittìre.
Intanto, avevamo raggiunto lo spiazzo tra rocce di sciàra, quando il compagno che ci precedeva si bloccò di botto su una gamba, la testa tisa in avanti e l’arìcchie appizzàti in ascolto, scrofoniàndo nelle rocce arronzàte di spine che gli s’apparàvano davanti, proprio là dove il viòlo principiava ad attraversare la zona della timpa. In quell’attimo, una “forma” – qualcosa di janchìccio, ci parse – vi sbucò e, saltando saltando, veloce corse in verso di noialtri. Per lo scanto, botta di sangue alla testa m’acchianò!
Sandromabilìa si voltò di scatto, mi spinse al petto affannato, con un tremito sarvàggio. Non arriniscèva a spiccicare parola. Apriva e inchiudeva la bocca com’un pisci fuori d’acqua, come se non attrovàsse la voce per parlare; infine, jettò all’aria, acutissima, la schìglia – Ahiuhaaa! –: il nostro segnale indiano di pericolo.
Mi girai e ce la dèsimo a gambe, a carrèra stisa, io avanti e lui arrèri, incuranti delle ardìche, dei ghiòmmeri di gramigne, delle spine seccarìzze dei rovetti, dei cardi, che ci lardiàvano, ci graffiavano le cavìglie, le cosce ignude per via dei càvosi corti, e ci straziavano gli stinchi, le brazza annaspanti, le facce alterate nella corsa. Fujèmmo a sdirrobbòne, a perdisciàto, inseguiti dalla “forma” che ci assicotàva, jettàva appresso a noialtri ticchi incredibili, mentre il cuore ci batteva a strafòttere e le tempie tamburiàvano pure loro. Ad un certo punto, ricanoscìi la voce spicàta e babba di Malandrino che ci corrèva appresso e forte clamàva: urlava d’aspettarlo, di non lassàrlo solo. Nei pressi della curva, dove il viòlo smoriva allàto al canneto e, poco più sopra, nella trazzèra all’incrocio fra la strada del Teatro con via Tommaseo, Malandrino ci raggiunse: «Scimuniti merdòsi!» lastimiò, ansimando quasi senza sciàto, tossiàndo e sputando di lato. Cercò di pigliare una boccata d’aria e, arraggiatìssimo, l’occhi micciòsi e sfàusi, scattiò: «Un cane sciolto da catìna era, gran figliazzi di…! Solamente un canìtto da pagliaro…!».
La faccia gli si stracangiò in una màscara losca.
Ci fermammo, lavati di sudore. Sandromabìlia tossiàva, scaracchiàva a destra e a manca che faceva acchianàre il voltastomaco, ansimava a bocca larga. E aveva l’alito che gli fetèva di capra morta.
«Jamonìnne di qua! Jamonìnne, di prèscia!» lo pregai con voce rotta pure io dall’ànsimo (mi sentivo quasi assoffocàre, dopo lo spàsimo della fujùta). «Oramai veduti ci avrà» seguitai: «potrebbe attrovàrci… E, se ci acchiàppa, s’allìppa…!».
Ma a chi parlavo? Al rèfolo di vento tramontàno che smovèva il canneto? Alla murata della massèria? Il mio socio pareva che manco m’ascoltasse: restò per qualche minuto con la spalla appojàta, come se niente fusse, al cancello a lanze di ferro del casàle di Don Vennerànno; poi se ne staccò, taliò torno torno con i carboni accesi degli occhi, e s’addecìse: «Dov’è Malandrino?» mi domandò, imbestialùto, rauco.
Dall’ombra, Malandrino fece agghicàre ancora la sua voce racchia: «Vigliaccòni sdisonoràti!» saittò a denti stretti, «Jtevènne tutt’e due affan…!». Parlò con la nànfara, perché tenèva, come al solito, le nasche intoppàte.
Aveva i capelli ritti per il nervoso. Ci squadrò come se volesse darci una tagliata di faccia (picca e niente ci sarebbe voluto, datosi il tipo, manìsco e sempre pronto all’azzuffatina: il coltello a serramanico sempre nella sacchètta d’arrèri lo teneva!). E, fra cancello e canneto, mannàra di silenzio calò. Per nostra bona sorte, il vicariòto s’incamminò tutto spacchiòso, abbommàto come una quartàra, svoltò in via Tommaseo, e ci lassò lì, attàglio al cancello, mammalucchìti.
Dalla marina di Cataldolce improvìse folate di salamàstro e jasmìno agghicàrono, a raffica.
Sandromabìlia arizzò le nasche, nasiò l’aria. Dopo avere sputato un paro di volte dall’angolo della bocca, s’incamminò pure lui, ma in verso la strada del Teatro, mormoriàndo astioso: «Sì, un cane era! Un cane streùso, però, che non have abbàio: mutànghero!».
Con il cuore tùrbolo di tristìzza, lo seguii insìno alla vanèlla del Ferraro. Qui il mio socio si fermò a pisciare contro il muretto, cercando di mandare lo sgrìccio più in alto che poteva. Lo imitai, ad alcuni passi di distanza, e lui dapprima mi taliò storto, ma poi scattiò a ridere.
Colsi al volo l’occasione: «Senti» osai sprovàrlo, «tu lo vedesti?».
«Che cosa?» finse indifferenza lui. Però mi occhiàva di straforo, con la scarda della pupilla sperlucènte per la chiarìa della luna. Si vedeva che faceva tracchèggio.
«Lo scor… lo scorsòne!» mi sforzai di dire. Smozzicai la parola sottovoce: mi pareva quasi di fare peccato.
«No» arrispunnì, sicco, «niente di niente vidi!». E batté i piedi a turno per levàrisi il polverazzo e le tracce d’erba dalle scarpe (sennò, al rientro a casa, chi la sentiva quella malandrina di sua madre?).
«Malandrino però lo vitte».
«Quel bastardo! Lo stìcchio di sua sorella vitte!» sciosciò a voce vàscia, abbottonandosi con calma la potìa dei càvosi. «Magari» isò la faccia ad alluzzàrmi sparviero, «lo scorsòne proprio lui è!».
Ebbe uno scatto della testa rizzùta. Testiò due, tre volte, come uno che non si capacitasse
In quell’istante, una luce lampiò il cielo in lontananza, lo allumò e riastutò in un battibaleno, e un botto trantoliòso lo seguì, intronante. Erano accominciàti i fòchiri d’artifizio alla festa di San Pietro.
Sandromabìlia tarantolàto pareva, trimàva tutto, saltariàva alla follìgna, svommicàva quatàte di fetenzìe: sdilliriàva che ero un figlio di femmina mala… che mia madre era questo ed era quello… e pure mia sorella Cettina e le mie zie e mia nonna lo erano… e tutte le mie nannàve e catanannàve… che era colpa mia se avevamo perduto i fòchiri…
Tentai di dirgli, svociàndomi, che avremmo potuto ancora vederli, ma i botti coprivano la mia e la sua voce. Allora, mentre m’ammuttiàva a manàte contro il petto e mi faceva rinculare a spintoni per attaccare la scerra, lo acchiappai a un brazzo e lo tirai di corsa insìno al cortiglio di Melaquattròcchi, sotto la gran coppolàta del pino. Finalmente, l’amico capì. Ci brancicàmmo suso a cavallo per il tronco e, una volta agghicàto il primo giro di rami, spostandoci a pinnolòne, ci lassàmmo cascare sopra il tettoja della casùbbola-pollaio rasènte alla casa. Da dove, canàli canàli, acchianàmmo sul terrazzino della Randazzèsa.
Quando ci sporgemmo di lassòpra, dalla latàta della marina di Cataldolce, il cielo bruno della notte si puntiò, a distanza, di mille colori: fiori giganteschi sbocciavano a ripetizione, si slargavano e scattiàvano in botti incalzanti e assordanti come cannonate. S’astutàvano, di poi, uno appresso all’altro, lassàndo al loro posto sparpagliati batuffoli di fumo nell’aria. Subito dopo, il velluto del cielo svampò d’una fujtìna di lumelli, di tizzoni gialli, azzurri e violetti, che s’assicutàvano in alto, a parabola, insìno quasi allo stesso punto, e riacchiommàvano, cangiandosi in pioggia granata e argento e turchina, sulla tetra e immota balàta del mare.
Sandromabìlia ridacchiava, le labbra aprùte alla moccalapòne. Con la sua luce, il riflesso dei fòchiri gli lampiàva e tingèva a svàrio di colori la faccia spolpata e lentiniòsa, gli zigomi alti, màuri, la testa rizza e màscola, l’occhio sbarracchiàto di ciàvola: l’espressione gioiosamente sciavòna.
I botti – castagnole, petriere, maschetterie, maschettoni seccàgni e assordànti – seguitarono per un pezzo a lampiàre, a spertùsare il colmo del cielo, alternati da sgrìcci e fujtìne a mischìglio di lumelli cadenti, di stillùzze, di tizzoni d’ogni colore, insìno a che, da una pioggia d’oro filato, non sprizzarono, altissime, le rotelle pazze, che s’inabbissarono a perdìrisi, in vorticòse corone di spresìlle infocate sempre più minuscole, nel civo cubbo e funno della notte.
Un ultimo botto, tanto assordòso da far trantoliàre il terrazzino della Randazzesa, e i muràmmi, i canàli e le vetrate delle case tutt’attorno, chiuse i fòchiri. Scoprimmo allora che le campane delle chiese di Cataldolce, di lontano, scatenate erano, sonavano a distesa, e che una scia di lampare, lunga e ricurva, indorava l’inchiostro del mare: le barche dei pescatori, allamparàte, seguivano a cortèggio lo splendore di luci della paranza-vara e, in processione, accompagnavano la statua del Santùzzo a fare il giro del molo.
Quando pure le campane tacèttero, lassàndo echi e rintroni nella vacànza tremula dell’aria, s’intèse la schìglia di Mariannina, che clamàva il figlio dal pisòlo di casa, lassòtto – «Saàndroo! Saaàndroooo…! Saaandroooomabìiiliiiaaa…!» –, e pareva che cantasse saracìna.