Laura De Falco: la scrittrice ritrovata

Ho avuto l’onore di “festeggiare” la giornata dell’8 marzo del 2002, tenendo un incontro sulle scrittrici siciliane per L’Università delle Tre Età di Giarre. Da lettrice non neutra, siciliana e femminista, ho coltivato questo filone di interesse. In particolare ho rilevato che da quell’anno ad oggi il numero delle scrittrici siciliane, o perlomeno nate in Sicilia, è raddoppiato rispetto al periodo che va da inizio novecento al 2002, senza contare le piccole pubblicazioni che non assurgono alle cronache nazionali. Da una panoramica delle riconosciute nostre scrittrici mi vengono in mente le considerazioni di Sciascia espresse in Sicilia e Sicilitudine. Ma non desidero parlare di questo aspetto che desidero approfondire successivamente, ma della ritrovata scrittrice Laura Di Falco (nella foto accanto, n.d.r.), nata Carpinteri, che visse esperienze culturali come la collaborazione al “Il Mondo” di Pannunzio. Ritrovata perché fino al 2002 in libreria era impossibile trovare i suoi romanzi candidati e finalisti al Premio Strega. Nel 2012 la nipote, proprietaria della siracusana casa editrice VerbaVolant, ha ripubblicato tre dei suoi romanzi (qui la recensione/intervista di Simona Lo Iacono dedicata all’iniziativa segnalata, n.d.r.). Ne ho letto due, Una donna disponibile del 1959 e L’Inferriata del 1976 che confermano un’apertura culturale italiana ed europea ed una forza, un vigore, una compiutezza nel raccontare la sua Sicilia, i due aspetti della scrittura degli autori siciliani di cui parlava Sciascia citando, però, solo uomini.
Il romanzo L’inferriata, finalista al premio Strega del 1976 sostenuto da Eugenio Montale, è ambientato nella Siracusa degli anni sessanta durante lo sbarco nello spazio di Apollo3. La scrittrice parla degli ultimi miseri sfarzi dell’antica nobiltà abbarbicata ad Ortigia, della nuova e terribile realtà industriale della chimica installata sulla costa, della politica di sviluppo territoriale legata ai particulari interessi piuttosto che all’intera comunità e alla salvaguardia della storia di Siracusa, dove i turisti trovano solo case e chiese decadenti. A fronte di questo, la giovane Diletta, per metà nobile e borghese per parte di padre, sperimenta la decadenza della sua famiglia del ramo nobiliare. Il palazzo dove vive, la camera della nonna, un lampadario di pregio e l’intera Ortigia sono solo rovine a dispetto della anacronistica alterigia aristocratica. Diletta intuisce che oltre la sua casa, il suo quartiere ci può essere altro ed un diverso modo di vivere, soprattutto per una donna. Agli occhi della madre la giovane mette in atto comportamenti non consoni al suo rango ed al suo genere, Diletta gira liberamente per la sua Siracusa antica e decadente. Con l’immaginazione, ricostruisce la grande storia della Città e la vita di S. Lucia, prima che diventasse santa e patrona della città. Anche lei, vissuta sul finire del duecento dopo Cristo, era stata una ragazza non rispettosa delle convenzioni del tempo a cui le donne dovevano sottostare, pagando tale libertà con il prezzo della persecuzione verso le/i cristiane/i. Diletta scopre anche la parte “moderna” della città di cemento e la nuova dimensione industriale che, nonostante dovrebbero rappresentare la modernità, contribuiscono al degrado ed alla decadenza dell’antico luogo.
Tutti i temi e i loro risvolti sono raccontati dalla scrittrice con un tono leggero e pacato, quasi malinconico, da una posizione lontana dalla realtà descritta, ma non per questo la scrittura risulta meno incisiva e potente. Laura Di Falco da anni oramai viveva a Roma, come se quella lontananza avesse decantato la rabbia verso le dissennate politiche meridionali. Il distacco con cui sono raccontate le vicende sociali ed economiche di Siracusa è affidato a Diletta che ancora giovane inesperta, sognante, curiosa, inquieta, indecisa, e poi decisa, vive, osserva respira tutto ciò, ma è come se non le appartenesse perché lo sente come un mondo non suo, immaginando una diversa città e un proprio diverso futuro. Non le bastava più abitare in un palazzo nobiliare dalla cui ambita balconata, durante la festa di S. Lucia di maggio, si poteva assistere al rito, perpetuato dalle monache, del lancio delle colombe dall’inferriata della badia.