La sindrome da talidomide: malattia rara dimenticata dallo Stato

Sopravvissuti. Così vanno chiamati. Sono quegli uomini e quelle donne che dalla nascita sono segnati, nei loro corpi, dalle gravi malformazioni congenite compatibili con gli effetti della talidomide, quel farmaco killer che ha fatto enormi danni, negli anni Cinquanta e Sessanta, quando veniva somministrato con leggerezza alle donne incinte. Presentato come panacea di tutti i disturbi dettati dalla gestazione, nascondeva in realtà un effetto devastante sul feto. Tantissime le morti prima ancora di nascere, ma tantissimi anche i bambini nati con gravissime malformazioni.
Molti di loro, diventati adulti, non sono però mai stati indennizzati per questa tragedia. A rappresentarli, in questo caso, è Salvo Patanè, che si presenta così: “Sono una persona disabile, e porto appresso un ‘marchio’ in comune con altre dodici persone tutte nate nel corso dell’anno 1957”. Probabilmente sono molti di più, ma questo è quanto dice un censimento spontaneo, improvvisato sui social, per provare a fare massa critica nel rivendicare diritti e dignità.
“La nostra disabilità, senza contare i morti fetali, è la conseguenza del più grande disastro farmaceutico degli anni Cinquanta e Sessanta”, racconta Salvo, 65 anni, la cui mancanza di una mano non ha impedito di creare una bellissima famiglia, di avere quattro figli, di lavorare e di fare sport.
La talidomide era proposta come un farmaco sicuro, innocuo ed economico e costituiva il principio attivo di parecchi prodotti farmaceutici, in altre parole: aggiunto o mescolato con altri farmaci, era somministrato per curare anche il banale raffreddore, un mal di testa un po’ invasivo, una nausea fastidiosa. Buono per tutti i disturbi di una donna incinta, insomma. La somministrazione copriva una vasta gamma di indicazioni: “Asmaval” per asma, “Tensival” per l’ipertensione, “Valgraine” per l’emicrania, e così via. Ma sempre di talidomide si trattava. “Lo potevi aggiungere alla liquirizia e diventava un digestivo”, sorride amaro Salvo, al quale questa ingiustizia non ha certo tolto l’ironia.
“Stiamo parlando di un prodotto che non necessitava della ricetta medica, pertanto il medico poteva indicarlo, annotarlo, con un valore di prescrizione, anche sul foglio di carta del macellaio, dato il contesto storico in esame. E la carta del macellaio, quando credi non ti serva più, la butti nella spazzatura”.
E così la talidomide mieteva vittime innocenti e inconsapevoli, a causa di una sperimentazione clinica completamente insufficiente e ricerche fallate e condotte male. La vendita del prodotto, però, era fonte di enormi guadagni.
A fronte di tale disastro, lo Stato italiano, anche se con imperdonabile ritardo, ha riconosciuto la sindrome da talidomide: nel 2005, ben 43 anni dopo la revoca totale dei farmaci a base talidomide avvenuta nel luglio 1962. Un’attesa vergognosa, tanto che lo stesso legislatore, negli atti preparatori della legge in questione, non si esime dal parlare di “colpevole ritardo” nell’arrivare ad una normativa al riguardo. Testualmente, la legge viene emanata per “assicurare la indispensabile assistenza ai soggetti affetti da sindrome da talidomide, determinata dalla somministrazione dell’omonimo farmaco”.
Una legge, quindi, di natura solidaristica, in seguito alla quale è stato attribuito un indennizzo, ma solo ai nati nel range temporale 1959/1965. Ma Salvo è nato prima: nel ’57. Eppure porta segni inequivocabili causati da quel farmaco killer. Ecco un ulteriore ostacolo, poi sanato da un nuovo intervento del legislatore che, notando l’esclusione di alcune decine di potenziali talidomidici, prova a metterci una pezza. D’altra parte, vista la latitanza dello Stato italiano nell’espletare un censimento in tal senso, è una continua rincorsa, nonostante le interrogazioni parlamentari del 1962, che, già prima della revoca di tutti i farmaci a base talidomide, sono chiarissime sui danni causati.
La natura solidaristica di cui sopra, di rango Costituzionale, s’è quindi espressa in tutta la sua forza con la pubblicazione della legge 160/2016, allargando giustamente il range temporale del disastro farmaceutico ai sopravvissuti “ancorché nati al di fuori del periodo ivi previsto”. Si porrebbe così rimedio ad un’irragionevole discriminazione.
“Invece non è così – sottolinea Patanè – perché, in palese violazione della citata legge, qualcuno, al Ministero della Salute, ha sottoposto al proprio giudizio e non a quello sanitario i nostri casi. Nella legge, precisamente all’articolo 21-ter, c’è scritto ‘ancorché nati al di fuori del periodo ivi previsto’. Ma è una commissione medica a dover stabilire se rientriamo o meno, non un amministrativo. Siamo di fronte non a un problema di giustizia, che formalmente esisterebbe, ma di burocrazia, che di fatto la nega. Cosa ne deriva? Che, negando il riconoscimento della sindrome da talidomide ai sopravvissuti del 1957, si evince il “messaggio”, arrogante e spregevole, che “qualcuno” ha facoltà di bypassare la Legge, la quale, benché sia uguale per tutti, per “qualcuno” è più uguale! Costretti a lunghe ed estenuanti battaglie legali, oltre che economicamente dispendiosissime. Condannati due volte, prima da un farmaco letale e dopo da uno Stato assente e sordo. Vessati da dirigenti che pur di raggiungere i loro obbiettivi economici negano un diritto soffertamente acquisito.