Il difficile rapporto fra la società ed il Palazzo

La storia della nostra Repubblica inizia nel 1946. Una Repubblica nata in un’Italia sommersa dalle macerie della Seconda Guerra Mondiale che si dovette confrontare con un mondo che correva, forse più di oggi, verso il rinnovamento e un lasciarsi alle spalle uno dei più sanguinosi eventi del vecchio millennio. Dodici sono i Presidenti della Repubblica, ben sessantasette i Governi repubblicani e tante, moltissime generazioni di italiani che si sono susseguite nel corso degli anni.
Proprio a causa di questi numerosi cambi al vertice il cittadino ha sempre sviluppato una forte avversione verso ciò che lo rappresenta, specie dal termine della Prima Repubblica, vuoi per gli scandali politici che ne sono venuti fuori, vuoi, culturalmente parlando, per il diverso modo di fare politica rispetto agli anni del boom economico, in cui la Democrazia Cristiana, ma così anche il Partito Comunista, passando per tutti gli altri partiti protagonisti nel vecchio panorama politico. E le due strade, quelle del cittadino e del politico, o, parlando più nel generico, della classe politica, non si incontrano più da un bel po’. Specie negli ultimi anni, infatti, la società ha guardato con un certo distacco un’entità che generalmente intendiamo come “Stato”. In effetti, camminando per le strade del Bel Paese, ci accorgiamo come ci si distacchi sempre di più dalla politica, che nient’altro deve essere che il mio, il nostro futuro, in quanto organo esecutivo (nel caso del Governo) e legislativo (nel caso del Parlamento). Ma questo allontanamento, però, non è improvviso ed è da ricercare indietro nel tempo.
La storia cambia e si evolve, non è statica. I documenti che abbiamo oggi, dalle notizie alle foto e i video, ci mostrano come il fare politica nell’immediato dopoguerra era esattamente all’opposto di oggi. Non c’erano salotti televisivi, non c’erano i social media, il giornalismo era diverso. Strade, piazze e periferie: erano questi i luoghi preferiti dai leader politici, nonché rappresentanti di un’ideologia oltre che esponenti di un simbolo di partito, i quali incontravano direttamente i cittadini, faccia a faccia, a parlare di esigenze comuni, malumori diffusi. Come dimenticare il Presidente Pertini che, nel “lontano” 1981, alla domanda del giornalista Enzo Biagi, “Come si può vincere questa crisi di sfiducia che gli italiani hanno nei confronti delle istituzioni”?” egli rispose con un loquace, tanto diretto, “Le istituzioni non sono una cosa astratta […]. Gli italiani devono avere fiducia, altrimenti si fa del qualunquismo”. Ecco, è questo che manca alla classe politica di oggi. Pertini fu uno dei più amati, se non il più amato, Presidente della Repubblica della storia contemporanea italiana. Un politico “vecchio stampo” che faceva politica in un modo differente, un Partigiano al Quirinale che non era un Presidente, ma il Presidente di tutti. Un modo diverso di fare politica (per quanto, poi, il Capo di Stato possa far politica), che era rappresentativo del tendere la mano al cittadino, non tanto in qualità di “semplice” cittadino, ma quanto di persona, con la propria dignità e il proprio vissuto. Scomodo per l’ultima volta Pertini per tirare fuori una delle scene più forti di carattere politico e comunicativo, quando, davanti un operaio pugliese di mezza età, il quale si scusò per aver stretto la sua mano sporca a quella del Presidente, che gli disse: “La tua coscienza è pulita, compagno”. Solo con lo sguardo di critico di chi conosce la storia, possiamo apprezzare la grandezza di un tale gesto. Dal punto di vista umano e politico.
Oggi, tutt’al più, la politica si tinge tanto di slogan ed apparenze. Ma ciò non è da imputare completamente alle macchine di comunicazione che si muovono nelle segreterie dei partiti. Conosciamo bene la regola economica del “Se c’è domanda, c’è offerta”, questa la possiamo applicare anche nel mondo politico nostrano odierno, dove le notizie corrono e si conformano a quanto si vuole far passare. Non è importante il contenuto, ma la forma nella quale viene proposto. Contano molto di più le parole dette davanti un’équipe televisiva che manipola il messaggio. Tanto quanto, sono importanti i post che ogni giorno ci ritroviamo nelle nostre homepage dei social network, così come gli spazi nei giornali non sono più un canale di collegamento fra cittadino e politico, bensì sono un’ottima vetrina per gli spot elettorali dei leader. E, alla fine, ciò che rimane è solo un vuoto, profondo e insonoro, tra la società e il Palazzo. E tutto ciò lo dimostrano le vicende degli ultimi mesi, dalle raccolte firme per i referendum ai voti e alle bagarre in aula, che mostrano un paese, il nostro, palesemente spaccato fra ciò che di vuole e ciò che si riceve.
Forse è il momento di tornare al punto di partenza, a rendersi conto che la distanza accumulatasi tra il cittadino e il suo rappresentante deve essere ridotta per una duratura convivenza di entrambi. Il cittadino ha fiducia nella buona politica. Facciamo attenzione a non trasformare il concetto di partito in ambito sportivo. Non idolatriamo un leader come se fosse uno sportivo, non esultiamo quando vinciamo una battaglia politica che va a discapito di altre persone. La politica è di tutti, la politica è nostra.